Gaetano Fiore: “Alberi crescono in acqua” 2014

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Paolo Puppa: Alberi crescono in acqua per Gaetano Fiore

Alberi crescono in acqua

O Gaetanello, questi blu elettrici li hai per caso sottratti a qualche tetto di Chagall, ai suoi violini zigzaganti nella mano ebbra dei suoi barbuti rabbini? E magari qualche moschea rivendica i verdi bottiglia che si accoppiano furiosamente, nella loro tendenza a farsi boschivi, cogli smaltati cobalti preziosi? Oppure sono i paesaggi accesi dalla tavolozza di Ennio Morlotti ad esigerne il rientro? E ancora i tuoi screensdorati che aprono piaghe bizantine nei muri del pianto (dietro di loro un muezzin lancia i suoi puntuali lamenti) appartengono alle vertiginose utopie sceniche di Craig? Ma ormai sono solo tuoi gli alambicchi alla ricerca di qualche pietra filosofale. Il quadro in te si spalanca in effetti coll'ingordigia di un'affamata fornace. Te lo dico da Veneziano, residente alle Zattere, di fronte alla Giudecca, e vicino in linea d'aria alle fabbriche muranesi del vetro. Lo sai che Ariel e Ghisola, ovvero D'Annunzio ed Eleonora Duse, si perdevano in quei labirinti alchemici, tra le erbette sulle fondamenta, vicino alle vampe e alle paste fluorescenti prima di fissarsi nei vitrei stampi? Questo al centro de Il Fuoco, uscito l'anno in cui fa il suo esordio il secolo breve, il Novecento. Del resto, sui fondali delle tue tele si ritagliano uno spazio primario candelabri semiti, mentre graal misteriosi si rizzano fieri e aguzzi, e ti chiedono imperiosi di lasciar emergere le loro glaciali epifanie. Ma sono gli alberi ad attrarti, alberi che ti porti dentro, da qualche idillio adolescenziale, un Segantini, un Previati scarnificati dall'incipiente decorativismo viennese. Sono pini mediterranei osservati nelle tue magnifiche terre di origine, o sono betulle nordiche sbocciate dal tuo trapianto germanico, per amore della bella Elisabetta?

Fatto sta che dopo Dafne che si muta in arbusto invernale a respingere la foia di Apollo, dopo il dantesco Pier Della Vigna suicida che sanguina allo strappo di un ramo/braccio, irrompono questi tuoi Cristi nascosti dietro il velame pittorico. Perché nel grottesco, ovvero le immagini parietali studiate da Bachtin nelle grotte al tempo delle persecuzioni di martiri e santi, esplodeva l'antica fantasticheria a congiungere mondi vegetali, animali e umani ed era il figlio di Dio alluso nelle icone floreali che si impennavano verso l'alto, segno certo di resurrezione. Già, il tuo amico albero ogni primavera si risveglia e rinasce, a differenza del nostro misero corpo che nel mese più crudele, ossia aprile come ricorda Eliot, mescola ricordi e desideri quando è troppo tardi e la carne non risponde più. Insomma, i tuoi alberi candelabri alzano le loro braccia in un tripudiante inno di speranza. Basta saperli ascoltare, oltre che guardare abbacinati da tanta forza vincente. La medesima forza che promana dalla tua personcina mite e caparbia, fiduciosa nonostante tutto e sempre aperta al dono dell'amicizia.

Sì, Gaetano, i tuoi alberelli, le tue arborescenze non fanno che abbeverarsi di una luce acquatica e lunare, vi si specchiano, umanizzando e screziandovi i lineamenti con placida tensione. Nel frattempo, si sporgono non nell'aria notturna, ma in un'acqua profonda. Narcisi insaziabili, si immergono, tremolando di freddo piacere. Ecco pertanto la sinfonia di dittici, di trittici, di polittici che ne declinano e ne scandiscono il loro silente spaesamento. Foglie scendono lentamente dintorno, quali petali sulle cui vene un albume lattiginoso solca i reticoli più intimi. Allo stesso tempo, in alto, baluginano e guizzano spume di rosso sangue, quel che resta forse di oscuri sacrifici, e più su ancora si stagliano onde equine, galoppanti strisce bluastre a parlare obliquamente di risucchi, di annegamenti letali e insieme provvisori. Al centro, spesso, può profilarsi una coppa rituale, dalla base sfrangiata in schegge che lasciano fondersi tra loro correnti verdastre che da paludose tinte bottiglia o misture marengo trascolorano in fresco muschio e poi in luminescenze azzurrine. Altrove, il cielo si stratifica e perde via via pelle e si fa blu marine o royal, rasserenando la notte come in un dolce presepe natalizio. Algide atmosfere, in prevalenza, capaci però allo stesso tempo di scaldarsi e di accendersi come in affreschi pompeiani, o di arrugginire in varianti mattone o farsi penombra violacea. Così pure premono ocra trionfanti, aranci abbaglianti, senapi maliose nella convivenza tra rettangoli e prismi e quadrati, cornici che smottano una sull'altra a incidere ritmi vertiginosi e mise en abîme danzerine. E tutto, oh sì tutto, tutto sale, ripeto, verso l'alto e fatica a contenersi nella misura del quadro. Già, e ti vedo, ti vedo, ti vedo, Gaetano, coi tuoi pennelli sgocciolanti come un fauno insoddisfatto dopo amplessi troppo rapidi, in coabitazione disarmonica con una ferinità necessariamente controllata. Tant'è vero che ovunque volute, ali, anse spezzano il geometrico, lo curvano e lo ammorbidiscono tra indizi di parabole e nostalgie di rotondità, grembi materni più rassicuranti rispetto alle geografie araldiche e ai cimiteri deprimenti dopo la battaglia. Ogni tanto in pinete simili a tentacoli ossessivi spunta pure qualche lettera da un occulto alfabeto, un'acca che pare oscillare a mo' di altalena infantile. Forme calcinate, sagome ramate, liquidi simulacri conferiscono di fatto allo spettro dei colori un'accezione spiritistica. E mi appari allora, Gaetanello, all'improvviso quieto, quasi appagato dopo tanto furibondo sperimentare sempre nuove dimensioni. L'Olimpo dei tuoi archetipi illustri, la serie dei grandi modelli dell'avanguardia, i Kandinsky, i Mirò, i Rothko, i Tanguy, e i nostri Licini e Soldati, per elencarne alcuni, assimilati nel tuo lungo apprendistato, si fanno da parte davanti a tanta autonomia e idealmente si felicitano colla tua raggiunta maturazione. Dal maelstrom visionario risali infatti con qualcosa di stabile, idioletti personali dove appoggiarti e respirare con comodo. Ti permetti così di tendere una mano non più “pargoletta” all'albero-croce-coppa che sembra placare finalmente la tua anima.

Paolo Puppa, Venezia, gennaio 2014

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